Cambiare – Ho sempre creduto che la definizione di intelligenza, come la qualità di quegli esseri che sanno cambiare per sopravvivere, non potesse essere messa in discussione. Mi sono abituato a vederla così fin da quando, un ragazzo delle scuole medie, ho approcciato le teorie evoluzionistiche per la prima volta.

Oggi, devo ammettere, le cose non mi sembrano più così evidenti. Non ho cambiato opinione, solo ho constatato che molti attorno a me la pensano in maniera diametralmente opposta. Per tante persone, essere intelligenti vuol dire fare il possibile per non cambiare lo status quo: il famoso “squadra che vince non si cambia”.

Alcuni animali, per difendersi, salvarsi da un pericolo o semplicemente vincere un momento di stress, ricorrono al trucco di fingersi morti. Confidano nel fatto che il loro avversario pensando a una morte per malattia o avvelenamento rinunci a trasformarli in una preda. Aspettano, delegando alla stupidità degli avversari le proprie chances di sopravvivenza. Beh, loro sono giustificati, i loro avversari spesso sono veramente stupidi.

Per noi le cose sono diverse, le difficoltà che incontriamo hanno una dose intrinseca di intelligenza che spesso ci supera (altrimenti queste difficoltà le vedremmo arrivare da lontano e riusciremmo a evitarle con facilità). Le difficoltà (che siano situazioni o persone poco conta) ci colpiscono nei punti di debolezza, nelle cose per le quali non abbiamo doti o talenti naturali (chè altrimenti non le percepiremmo come difficoltà). Questo fenomeno ha indotto nella nostra cultura un atteggiamento che mi provoca un fastido tremendo: cresciamo con la convinzione che per ottenere il successo ci si debba concentrare sul risolvere i propri difetti. In pratica ci viene chiesto di cambiare quelle cose per le quali cambiare è più difficile, spesso con il risultato che non cambiamo nulla.

Certo, lavorare sulle proprie aree di debolezza è importante e dovrebbe rientrare nella routine di ogni nostra attività. Ma credo che 20 minuti al giorno possano bastare.

Quanti di voi riescono a passare una giornata intera a ragionare su i propri difetti senza acquistare uno stato d’animo terribile e deprimente? Il nostro “mood” è sempre un buon indicatore di come saranno le nostre performance: mi sento uno schifo? Farò schifo.

Da sempre sostengo che sia molto più importante fare leva su i propri talenti. Se lavoriamo cercando di mettere a frutto i nostri talenti, il cambiamento diventa una cosa automatica, piacevole, desiderata.
Il mood diventa positivo, ci divertiamo e sentiamo che possiamo fare la differenza. Non dobbiamo delegare ad altri la nostra sorte. Penso anche che quello che facciamo, se lo facciamo bene, valga la pena di essere fatto più per gli altri che per noi stessi. E allora mettiamoci nei panni di questi altri. Credete che preferirebbero sapere che quello che facciamo per loro lo facciamo cercando di correggere i nostri difetti o mettendo a frutto quello che siamo portati a fare.

Se poi continuiamo a imparare cose nuove e a usare i nostri talenti per fare leva su queste nuove competenze, beh, magari finiremo anche col diventare utili. Provate a pensare a qualche famoso imprenditore di successo e domandatevi se pensate veramente che passi il suo tempo a correggere i propri difetti, a dare retta ai collaboratori che hanno evidenti difetti da correggere. Per analogia, pensate a un’azienda con due mercati, uno nel quale riesce a vendere e uno dove ogni sales call è un pugno in faccia: che percentuale di tempo dovrebbe spendere su ognuno dei due mercati?